Fare o fondare la bioetica globale? 3 – Metabioetica: le ragioni di essere uomo, vita ed etica

 

 

G. Harrison – utilizzando la metafora del “villaggio globale” di McLuhan – parla della contestualizzazione del “fare bioetica” all’interno della società pluralistica, dove potrebbero sorgere conflitti sul modo in cui i progressi nel campo biomedico potrebbero o dovrebbero essere applicati (G. Harrison, È la bioetica universale, tanto al Nord quanto al Sud del mondo?, 1994). Conflitti possono sorgere dalle differenze tra dottrine religiose, filosofiche o etiche, tra convinzioni culturali e assunzioni di fondo che riguardano la vita umana oppure tra i vari metodi che si usano per risolvere i conflitti di valore. Conflitti di questo tipo si possono risolvere o almeno si può tentare di risolverli con una visione globale e unificata dell’uomo, dell’etica, della vita e anche della medicina; una visione che connetta i principi tra loro in modo armonioso e integrato (con il principio di non contraddizione formale e pragmatica), evitando la conflittualità tra i principi stessi, oppure solamente evitandoli. Si evitano appunto i conflitti di valore nel “fare bioetica” quando si tenta di fondarla su una falsa omogeneizzazione di opposti interrogativi, spostando le frontiere assiologiche ed epistemologiche tra la natura e l’uomo, tra la scienza e l’etica, tra la biologia e l’antropologia. Il “fare bioetica” si colloca spesso nel piano astratto del termine humanitas. Gli autori che fanno la bioetica globale parlano in nome di tutta l’umanità e vogliono salvare tutta l’umanità in nome della sopravvivenza della specie umana, ma allo stesso tempo negano il diritto fondamentale e universale alla vita e alla sopravvivenza di alcuni popoli o di tante persone. Nei loro programmi o appelli a tutta l’umanità hanno perso il vero protagonista della riflessione e della pratica bioetica: la persona. Non si tratta quindi dell’uomo come pura specie o entità genetica e biologica nel super-organismo chiamato “ecosistema”, “globo” oppure “cosmo”, ma si deve rispettare l’umanità in ciascun uomo come soggetto di diritti.

Il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi, non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. Il rispetto dei diritti degli altri è però un dovere – possiamo dire – prima facie che assicura il rispetto dei propri diritti e di quelli altrui. «La teoria dei diritti umani si fonda proprio sulla considerazione del fatto che l’uomo, diversamente dagli animali e dalle cose, non può essere sottomesso al dominio di nessuno» (Evangelium vitae, n. 19). Stabilire “principi” al di fuori del triangolo epistemico-assiologico anthropos, ethos e bios, non significa in realtà costruire una teoria, un’etica oppure una metabioetica, ma soltanto un insieme di regole di equilibrio o di equità tra il paziente e il medico, tra l’individuo e la collettività, tra la società e la legislazione, oppure – come abbiamo visto nella soluzione proposta da parte di Potter, Chiarelli, Fox o di Boff – tra l’uomo e l’ecosistema. Il cosiddetto “globalismo”, “principialismo” o “contrattualismo” in quanto “concetti di mediazione”, “linee regolative” o “regole prudenziali” nel campo della bioetica si presentano decisamente come sistemi di regolazione-mediazione, che permettono solo una fluidità delle informazioni e delle funzioni attraverso una via compromissoria, il più possibile complessa e senza conflitto di interessi (una biopolitica, una sociobiologia). I riferimenti pratico-concettuali di tutti i paradigmi bioetici sopra citati, di fatto, hanno evitato la fondamentale tappa della “pura” fondazione di una bioetica in senso stretto, intesa come riflessione etica sul bios. In seconda istanza, gli stessi principi selezionati e sistematizzati sul piano teoretico guidano purtroppo il comportamento e il giudizio ultimo pratico dell’azione.

Dopo aver respinto il “fare bioetica”, in quanto modo inadeguato di vedere e di concepire le realtà fondative della bioetica come anthropos, ethos e bios, dobbiamo constatare che in realtà non si può “fare” l’uomo, l’etica e la vita, poiché essi già esistono, ci sono. Il loro essere e il loro modo d’essere precedono ogni forma di “farli” sia a livello teoretico (metabioetica e bioetica generale) che pratico (bioetica applicata e globale). Inoltre, il contenuto del loro essere, in quanto “uomo”, “vita” ed “etica”, non è una cornice metodologica da riempire o da stabilire arbitrariamente, ma è il tutto che ha la sua dovuta importanza, e, di conseguenza, deve essere rispettato dal punto di vista cognitivo sub specie totius. Dietro la critica al cosiddetto “fare bioetica” – il segno visibile del dominio contemporaneo della tecnoscienza con la sua ratio technica – c’è l’ovvia necessità di fondare i principi stessi su qualcosa di più fondamentale (ratio ethica).

Il primo problema epistemologico da affrontare nella fondazione di una bioetica globale sarà, quindi, cercare e trovare ragioni di essere uomo, vita ed etica. Per prima cosa bisogna acquisire e possedere il sapere totale e integrale di tutte e tre le realtà fondanti e fondative della bioetica (anthropos, ethos e bios). Il sapere olistico o globale richiede, dunque, un’antropologia globale, una filosofia della vita e una filosofia morale globale.

Tale ricerca degli statuti epistemologici di bios come vita umana e di ethos in quanto etica normativa dell’agire umano (praxis) per una fondazione della bioetica, suppone già di avere uno statuto epistemico di anthropos, poiché ambedue gli statuti precedenti si formano e si riferiscono implicitamente a una visione antropologica dell’uomo. Tale approccio metabioetico è ritenuto rilevante per una bioetica finalizzata alla sua fondazione come sapere antropo-ontologico e antropo-assiologico dove l’essere umano è il bene supremo in quanto uomo. Dalla natura dell’uomo, di conseguenza, scaturiscono sia lo specifico modo di essere uomo in quanto vita umana e personale, sia il dover essere uomo-persona (il primum datum). È l’essere dunque che porta il bene e fonda il dovere morale verso la natura e il modo dell’essere uomo-persona. Da questo primo, costitutivo ed esistenziale dover essere nascono gli altri doveri morali verso tutti gli esseri umani e non-umani, portatori della vita come bene-valore fondamentale del loro essere. Riconoscere e rispettare gli altri in quanto esseri ragionevoli (umano) o soltanto viventi (non-umano) significa scegliere incondizionatamente la vita per proteggerla. Si tratta dunque di «prendersi cura di tutta la vita e della vita di tutti» (Evangelium vitae, n. 87). Scegliere e proteggere la vita in tutte le sue forme indica l’esistenza del secundum datum: “essere verso”, “essere con” ed “essere per”, cioè “un essere in relazione”, aperto al dono di sé, capace di amare e, infine, “un co-Essere” che scopre di sé dimensioni psico-spirituali e un carattere “trascendente”. La relazionalità dell’essere uomo si esprime in modo pieno nell’amore interpersonale e fecondo, nella generazione della nuova vita umana e personale. Infatti, «nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della persona» (Evangelium vitae, n. 43).

La fondazione filosofica, antropologica ed etica della bioetica comporta anche la possibilità di giustificare gerarchicamente alcuni principi nell’orizzonte del personalismo ontologicamente fondato e del rispetto del bene-valore fondamentale che è l’uomo in quanto persona: il principio della tutela e della difesa della vita fisica (o sacralità della vita o inviolabilità della vita), il principio di libertà e di responsabilità, il principio della totalità o principio terapeutico (l’integrità personale), il principio di socialità e sussidiarietà che mira al raggiungimento del bene comune attraverso il bene delle singole persone (cf. E. Sgreccia, L. Palazzani, F. Bellino).

Il paradigma bioetico tracciato nella rete dei principi epistemologico-metodologici, anche se sulla base del personalismo ontologicamente fondato, resterebbe una costruzione astratta come, ad esempio, l’immagine di una natura morta o un progetto sulla scrivania dell’architetto, se non trova la via per esplicarsi ed estendersi a tutti i livelli dell’attività umana nel campo della bioetica applicata o globale. Dove trovare e come stabilire un legame tra il rigido schematismo astratto dei principi e la poliedricità della vita morale? Alla luce del personalismo ontologicamente fondato non vi sarà altro legame più originario, organico ed attivo che la persona stessa. Soltanto l’uomo è capace di riconoscere il bene in quanto bene per realizzarlo, sviluppando un atteggiamento attivo di impegno morale e di condivisione motivazionale all’azione. Il riconoscimento e la realizzazione del bene passa attraverso la coscienza morale retta (risultato di un’adeguata formazione ed educazione) e l’azione moralmente buona (la formazione di una qualità morale permanente “buona” – l’etica delle virtù).

L’integrazione del paradigma dei principi etici e di quello delle virtù morali (cf. Aristotele, Tommaso d’Aquino, A. MacIntyre, E.D. Pellegrino), che può venire dalla proposta della bioetica personalista, consente di proporre – secondo Laura Palazzani – una direttiva morale generale, oggettivamente fondata, evitando il rischio dell’emotivismo soggettivistico, della mancanza di sistematicità e di specificità nell’indicazione del contenuto dell’atto umano. In secondo luogo, mediante le virtù, la stessa integrazione principi-virtù consente di motivare l’attuazione di un impegno etico attivo e costante ponendo l’attenzione sulla persona-agente e sulla concreta e ricca esperienza morale, evitando l’intellettualismo etico (di tipo socratico-platonico), il rigido schematismo dei principi (il principialismo di Beauchamp e Childress), l’atteggiamento passivo di obbedienza al dovere in quanto dovere (la deontologia kantiana) e il bilanciamento nella valutazione delle conseguenze (l’utilitarismo, le teorie proporzionaliste e consequenzialiste) (cf. L. Palazzani, Paradigmi bioetici: principi, virtù, esperienza, personalismo, 1995).

p. Edmund Kowalski, CSsR

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